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_______ di alan parsonx - copyright 2018 (N.B. la lista non è definitiva ed è possibile inserire altri personaggi)

 
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wether report

Ultimo Aggiornamento: 19/09/2007 18:26
18/09/2007 14:39
 
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fu composto da Miles Davis - tromba - in collaborazione col fior fiore mondiale dei giganti del jazz:


Wayne Shorter - sax soprano
Bennie Maupin - clarinetto basso
Joe Zawinul - piano elettrico
Larry Young - piano elettrico
Chick Corea - piano elettrico
John McLaughlin - chitarra
Dave Holland - basso
Harvey Brooks - basso
Billy Cobham - batteria
Lenny White - batteria
Jack DeJohnette - batteria
Don Alias - batteria congas
Juma Santos - shaker, congas



18/09/2007 14:40
 
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Con BITCHES BREW, Miles Davis aprì un'ennesima porta. Era solito lasciarsi alle spalle il passato. E, a chi gli chiedeva lumi sulle sue svolte artistiche future, rispondeva: Non ci sarà altra tendenza a meno che si tratti di una tendenza che porti fuori della scena. E Bitches Brew lo portò oltre.
Aveva accompagnato (diciottenne) lo sviluppo del bebop accanto ai mostri sacri di Charlie Parker e Dizzy Gillespie; era stato propugnatore dell'estetica cool (lo storico nonetto, da lui guidato, che si esibì nel 1948 al Royal Roost); aveva indicato la strada dell'improvvisazione modale con A KIND OF BLUE (1959); costituì il quintetto più importante degli anni '60 (Herbie Hancock, piano; Ron Carter, contrabbasso; Tony Williams, batteria; Wayne Shorter, sassofonista) che lo preparerà alla svolta elettrica di IN A SILENT WAY (1969).

La sua idea d'arte era brancolare deliberatamente nel buio. Era la potenza del visionario (a guardare le sue foto si rimane ipnotizzati dallo sguardo ammonitore, scrutatore, sciamanico). Spesso non sapeva realmente dove lo avrebbe portato. Spesso pretendeva dai suoi collaboratori qualità empatiche: Non suonare quello che c'è. Suona quello che non c'è. Diceva. E dietro quest'aura di mistero si nascondevano i suoi progetti (che nel suo linguaggio altro non erano che pura improvvisazione, di quella di chi dal caos "organizzato" avrebbe tratto le idee più geniali). E allora, mescolare gli aromi della psichedelia (le registrazioni del disco iniziano il 19 Agosto 1969, lo stesso giorno dell'inizio del festival di Woodstock), quelli del funk (la sua ammirazione verso questo genere fu evocata nella condotta della sezione ritmica di Spanish Key), dell'avanguardia (l'estetica modulare), in un "brodo" dal sapore ancestrale e moderno. Ma, per "condirlo" doveva inventarsi una nuova "ricetta", cambiando.

E così cambiò il suo metodo di lavoro.

Non più parti scritte. Solo accenti qua e là, qualche battuta, qualche giro di basso e su di essi solo improvvisazione. Di quella che fulmina l'istante, rendendolo eterno. Di quella che libera lo spazio sonoro attraversato, verticalmente, dall'utilizzo "nervoso" del registro alto della tromba e di quello basso e minaccioso dal clarone (Pharaoh's Dance).

Cambiò il modo di registrare. Con la collaborazione di Teo Macero, quello che si registrava (in totale circa nove ore di musica poi ridotte ai novanta minuti del disco) non era l'arrivo, ma solo la partenza. Le tecniche di post produzione e le magie dell'editing faranno il resto. I brani originariamente suonati saranno fatti a pezzi; invertite, copiate ed incollate intere sezioni di nastro (la title track).
I tape loop (anelli di nastro magnetico) faranno da sostrato "tellurico" in questo viaggio agli inferi.

Il disco vendette bene. Presto, tutti gridarono al miracolo. Un po' dopo, era un miracolo se qualcuno non lo additasse di tradimento. In pochi, allora, ebbero il coraggio di capire che l'ultima chance il jazz se la giocava in quel modo. In molti, invece, pensarono che il disco rappresentava una concessione inammissibile al rock. Ma di inammissibile c'era solo quest'aporia. Pochi capirono che il jazz stava definitivamente compiendo il suo percorso naturale. Alcuni attraversarono la "porta" aperta, portandosi con sé un'idea vitale e rinnovata sulla musica afro - americana, altri preferirono chiuderla.

Quelli portarono con sé il passato. Che è sempre morte.

I BRANI:

PHARAOH'S DANCE
BITCHES BREW
SPANISH KEY
JOHN McLAUGHLIN
MILES RUN THE VOODOO DOWN
SANCTUARY
18/09/2007 14:44
 
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cosa ne pensa "Ondarock"

http://www.ondarock.it/jazz/recensioni/1970_milesdavis.htm

"Ha ancora senso stare qui a parlare di un disco come Bitches Brew? Ha davvero ancora senso chiedersi cosa diavolo abbiano significato per il jazz le jam-sessions di quell’armata Brancaleone, che tra l’agosto del ’69 e gennaio del ’70 registrò questo doppio? Ovvero cosa abbiano significato per il rock? Di sicuro c’è che Miles Davis, nato nel ’26 ad Alton, Illinois, cresciuto a pane e bop, era davvero un gran figlio di puttana!

Noi stiamo qui a farci le stesse domande del cavolo da trenta e passa anni e invece lui ci ha probabilmente gabbato tutti… e continua a farlo, nonostante il diavolo l’abbia finalmente portato via con sé quasi quindici anni fa.

Non ricordo chi e quando, ma ho ancora indelebili nella testa le parole di un vecchio jazzman: “Miles? Oh dio, no no… quando lui entrava nel locale, occhiali neri e coppola mafiosa, tutti, vi dico TUTTI smettevano di suonare gli assolo… paura? Ma no! È che quel gran figlio di puttana, non essendo capace di tirar fuori un assolo tutto suo, copiava ciò che gli capitava a tiro d’orecchi. Copiava e rielaborava…e, dio santo, come rielaborava… cazzo, era Miles! Il jazzman più pericoloso che il demonio abbia messo sulla faccia della terra!!”

Ehi ehi, aspetta… copiava? rielaborava?... Ah, non ce la faccio...

Quando metto su questo disco, mi crescono i capelli alla Karim Abdul-Jabar e, quasi quasi, mi sembra di ritrovarmi in braghe colorate su qualche fottutissima square di Harlem.

Ehi, fratello… passala… e passala! Vai, cristo santo, vai! Yeaaaahh…!!!

Quando in Pharaoa’s Dance, sul quel tappeto ritmico impostato da quel tipo strano di Zawinul che macina chilometri con i controcazzi, ehi porca puttana, ecco che entra Miles e quelle sue notine del cazzo… ti vien voglia di metterti a camminare dinoccolato, come se quei fottutissimi fratelli neri della downtown fossero l’unica possibile evoluzione del popolo nero di mamma Africa, cazzo.

Allora penso alle parole di qualche sapientone sul fatto che Miles non aveva inventato proprio nulla con Bitches Brew, che s’era semplicemente accorto che la musica era cambiata; che da un paio d’anni in giro per il mondo c’era un fratello nero, che veniva dalla terra di Sua “fottutissima” Altezza Reale la Regina d’Inghilterra, che si faceva chiamare Hendrix… Jimi Hendrix. Porca miseria, ragazzi, deve aver pensato Miles, questo la chitarra la fa godere, la fa godere come una cagna in calore… ehi, guarda come le dà fuoco. Ma, cristo d’un dio, da dove cazzo è venuto fuori questo qui?

Lo stesso sapientone, adesso, mi tira fuori anche Sly & the Family Stone e quel loro funk da dio, la voce dei neri metropolitani, i fratelli minori e un po’ dementi di quelli che a Città del Messico ebbero i coglioni di tirar su il pugno. Ma che vuoi che gliene freghi a quelli della politica e delle rivoluzioni quando, vendendo un po’ di quella polverina magica on the corner of the streets, puoi comprare l’auto dei tuoi sogni e portare a spasso quelle strafighe che, altrimenti, a un verme fottuto come te manco lo degnano di uno sguardo. E allora vaffanculo, sapientone del cazzo! Miles della musica aveva compreso l’essenza dello sballo.

Miles ne sapeva parecchio di polverine magiche, eh. Secondo voi da dove vengono fuori quegli squilli di tromba che ti trafiggono quando inizia Bitches Brew? Lo stregone imposta la cerimonia. La faccenda si fa dannatamente seria; quel Corea borbotta con il Fender e Miles chiama tutta l’armata a raccolta. Poi partono tutti, soggiogati dallo stregone. Lui detta e gli altri eseguono; dopo soli 5 minuti, se Miles avesse chiesto loro di darsi fuoco a vicenda, loro lo avrebbero fatto senza esitare. Dove cazzo lo trovi un capo così? Persino quella chitarra acidissima di McLaughlin sembra esserci sempre stata nel jazz.

E Spanish Key? Mi dite quale altro jazzman o rocker avrebbe saputo tirar fuori un ritmo come quello? Ma cosa diavolo ha quel ritmo? Mi fa diventare matto!! Cristo, dico, è un ritmo puntato del cazzo… ma cosa diavolo ha che mi tira fuori le budella e me le fa danzare come le aspidi del Nilo? Ah, quanto mi piacerebbe chiederlo a uno come Robert Wyatt che, nello stesso anno, me lo rifà tale e quale in To Mark Everywhere (The End of an Ear). E anche lì la magia si ripete! Scommetto che musicisti normali passerebbero la vita a cercare un ritmo così, senza mai trovarlo. E invece, questo Miles Davis del cazzo lo trova nella forma più antica di metrica. Era lì da almeno duemila anni e Miles l’ha tirato fuori! Fottuto speleologo del pentagramma! Lui prima ascoltava e poi scavava… e trovava! Prima ti ammazza, poi ti infila le mani nelle viscere ed eccolo lì che ti trova l’oro. Tu, l’oro nelle budella, ce lo avevi da sempre e non te n’eri mai accorto! O tu sei un deficiente o è lui che è un alchimista come pochi ne sono mai nati.

E così, dopo lo scherzo John McLaughlin, Miles finalmente apre le danze macabre del voodoo (Miles Runs the Voodoo Down); non ci sono più scuse, l’Africa è presente in tutto il suo terribile splendore. Il ritmo, le melodie, quel groviglio che solo un incosciente chiamerebbe armonia, esplodono senza ritegno. Adesso tutto diventa dannatamente chiaro: Miles stava solo mescolando e rimescolando in una fetida brodaglia l’Africa americana, quella dei neri spacciatori, dei giocatori di basket, quelli delle sit-com, con l’Africa dei nonni e dei bisnonni che, scesi dalle galee come schiavi in Virginia e nel Mississipi, esorcizzavano la paura del nuovo ignoto con la nostalgia del passato ancestrale in quelle danze demoniache.

La processione si conclude finalmente nella giungla armoniosa di Sanctuary; il limbo orripilante della giungla d’asfalto che ha aperto il trip di Miles e della sua accozzaglia informe lascia il posto al sole nudo e tondo che solo le savane di mamma Africa sanno regalare (sparisce il clarinetto di Maupin, strumento jazz metropolitano da sempre).

Miles, maledetto genio, alla fine sei riuscito a riportare i fratelli neri in seno a mamma Africa; sei riuscito a ripulirli dalla “bastardaggine metropolitana” che ne deformava l’anima da un centinaio d’anni.

Miles… eri proprio un gran figlio di puttana."

18/09/2007 14:45
 
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sarebbe a dir poco sacrilego non scrivere niente anche su gli altri autori di Bichtes Brew.

cominciamo da Wayne Shorter.

Suo padre aveva l'abitudine di ascoltare la radio in casa dopo il rientro dal lavoro. In tale modo Shorter viene, inconsapevolmente, iniziato alla musica jazz: grazie alla trasmissione quotidiana di Martin Block scopre e ascolta Bud Powell, Thelonious Monk, Charlie Parker, Coleman Hawkins, Lester Young e altri musicisti bebop. Inizia a suonare il sassofono verso i 16 anni. Nel 1952 si iscrive alla New York University dove studia per quattro anni.

Dal 1956 al 1958 presta servizio sotto le armi. Durante il servizio militare suona talvolta con Horace Silver. Dopo il congedo entra nell'orchestra di Nat Phipps e poi, nell'estate del 1956, in quella di Maynard Ferguson. Qui incontra per la prima volta Joe Zawinul.

Nel 1959 entra a far parte dell’orchestra di Art Blakey, i Jazz Messengers, in sostituzione di Hank Mobley che aveva abbandonato il gruppo nel corso di una tournée internazionale. Nell’orchestra Shorter inizia presto a distinguersi per le sue capacità di arrangiatore e compositore arrivando a svolgere anche la funzione di direttore musicale.

Nel 1964 entra nel quintetto di Miles Davis dove rimarrà per circa sei anni. In questo periodo si avvicina al sassofono soprano e collaborando con Davis inizia ad interessarsi all'apertura del jazz verso altri generi musicali.

Nel 1971, assieme a Joe Zawinul ed al bassista cecoslovacco Miroslav Vitous, fonda i Weather Report.

Negli anni Ottanta inizia ad incidere e collaborare in campo internazionale con musicisti che non provengono dagli ambienti del jazz come Joni Mitchell, Pino Daniele, Carlos Santana e il gruppo Steely Dan.

Nel 1986 i Weather Report si sciolgono e Shorter, pur riducendo la frequenza dei sui concerti, intraprende la carriera di solista che continua ancora oggi.

É stato recentemente in tournée con Herbie Hancock, il contrabbassista Dave Holland e il batterista Brian Blade. Il gruppo di più recente costituzione (2002) comprende in maniera più o meno stabile Brian Blade, John Patitucci al contrabbasso e Danilo Perez al pianoforte.


Discografia principale come leader
Speak no Evil (Blue Note Records, 1964)
JuJu (Blue Note, 1964)
Night Dreamer (Blue Note, 1964)
Adam's apple (Blue Note, 1965)
The soothsayer (Blue Note, 1965)
Super Nova (Blue Note, 1969)
Odyssey of Iska (Blue Note, 1970)
Native Dancer (Columbia Records, 1974)
Atlantis (Verve Records, 1985)
High life (Polygram Records, 1995)
1+1 (Verve, 1997) – in duetto con Herbie Hancock
High life (Verve, 1995)
Footprints Live! (Verve, 2002)
Alegria (Verve, 2003)





[Modificato da alanparsonx 19/09/2007 19:03]
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